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Michele Mozzati: «Milano ti conquista con l’ironia»

Chi conosce Milano conosce Michele Mozzati. Per i pochi con qualche dubbio sul cognome, parliamo dell’altra metà di Gino & Michele, uno dei sodalizi artistici più prolifici e inossidabili della storia dello spettacolo, fresco di una mini-tournée per celebrare ben 40 anni di onorata carriera. Autori teatrali (da Comedians a Tel chi el telùn), televisivi (da Drive in a Zelig), radiofonici (hanno contribuito alla nascita di Radio Popolare con programmi entrati nella storia), ma anche (e soprattutto) fondatori di Zelig cabaret, editori di Smemoranda nonché co-produttori dell’ultimo disco di Folco Orselli e persino co-autori (lo sapevate?) del brano leggendario del grande Enzo Jannacci: Ci vuole orecchio. Se c’è un fil rouge nella loro vita, oltre l’ironia, è sicuramente l’amore per Milano, la città che li ha sempre ispirati e, in qualche modo, ricompensati. Tra i due, Michele è forse il più curioso e inquieto, sempre a caccia di nuove idee e stimoli da seguire. Come l’intuizione di portare i musicisti indipendenti più interessanti del panorama italiano a suonare in un mini-festival, Fuori rotta, sull’isola di Stromboli, dall’8 all’11 giugno: «Così se funziona, lo portiamo a Milano», si affretta a spiegare. Dopo una vita di casa a Cittàstudi, ora è facile incontrare Michele in zona Paolo Sarpi: «Mi diverte tantissimo», confessa. Noi lo incontriamo da Otto, uno dei nostri locali preferiti, per cercare di capire qualcosa di più sulla nostra città e sul suo irresistibile desiderio di sorridere di se stessa. A partire da quel lontano 1986 in cui, con lo zampino della coppia G&M, sulle rive del Naviglio della Martesana, nacque Zelig, la casa del cabaret. Ma anche prima. E soprattutto dopo…

 

Come è nata l’idea di Zelig, il piccolo cabaret di viale Monza 140?
«Zelig è nato il 12 maggio 1986 a cavallo con la chiusura del Derby (il tempio del cabaret milanese dal 1962 al 1985 ndr). Ma non volutamente, è stato casuale. Il Derby ha chiuso perché stava finendo un’epoca: il suo pubblico era sia alta borghesia, sia malavita ricca, sia mondo dello spettacolo. Era un locale notturno culturale. Al Derby si trovava di tutto: da Mike Bongiorno e la gente dello spettacolo ai fuorilegge dell’epoca, da tarda notte fino all’alba. Quando è nato lo Zelig, invece, uno dei punti di partenza è stato: facciamo prezzi popolari e orari da cinema. Il cabaret iniziava alle 21,30, massimo alle 22, l’antitesi del Derby. Perché, per noi che venivamo dalla politica, la vera cultura alternativa non era più tirare le 6 del mattino come nelle cave parigine, ma raccontare Milano in chiave comica, con i piedi dentro le radici della città, tanto dentro che ci doveva venire a trovare la gente che il giorno dopo andava all’università o a lavorare. Così è stato. E così è rimasto».

 

Cosa ricordi di quegli anni?
«I primi dieci anni, in particolare, Zelig è stato rivoluzionario. È stato il cambiamento radicale da uno spettacolo di élite a un mondo alla portata di tutti. Sul palco di Zelig sono venuti tutti: il gruppo teatrale dei Comedians, diretto da Gabriele Salvatores al Teatro dell’Elfo, l’ha fatto nascere e ha costruito lentamente il tessuto che poi è servito a tutti per entrare nel mondo dello spettacolo e del cinema. Non lo raccontiamo mai, ma c’è stato un periodo in cui il direttore artistico, insieme a noi e Giancarlo Bozzo (che lo è tuttora), è stato proprio Salvatores».

 

E dopo i primi dieci anni cosa è successo?
«Io e Gino abbiamo cominciato a portare gli artisti di Zelig in televisione e in qualche modo abbiamo fatto la loro e la nostra fortuna. Finché un giorno, era il 1997, siamo riusciti finalmente a “vendere” proprio la storia di Zelig in televisione. L’avevamo proposta per anni ai migliori direttori dell’epoca (Gori, Freccero, Guglielmi…) e tutti ci rispondevano: “sì che bello portateli qui che lo facciamo”, noi invece abbiamo insistito convinti che dovessero venire le telecamere in viale Monza 140 e non il contrario: volevamo far capire alla gente cosa fosse un vero cabaret. Perché solo a Milano sappiamo cosa sia e non volevamo che perdesse la sua vera anima. Ci abbiamo messo un bel po’, ma alla fine, per una serie di casi fortuiti, ce l’abbiamo fatta. Così È nato Zelig come programma televisivo su Italia 1 in seconda serata, con il titolo orrendo di “Facciamo cabaret”. Fin dalle prime due puntate sono arrivati tutti i più grandi: da Aldo, Giovanni e Giacomo a Luciana Littizzetto e persino la grandissima Franca Valeri, proprio tutti. La sigla la faceva Ligabue. Oggi sarebbe impensabile. Avevamo semplicemente raccolto gli amici che avevano fatto la storia di Zelig, il locale cabaret, che, con complicità, si erano prestati a costruire questa novità. Poi, nel 2003, dalla seconda serata siamo passati alla prima. Ora sono 20 anni che c’è Zelig in televisione. È normale che molti lo confondano con il cabaret di viale Monza, ma sono due cose diverse».

 

Come spiegheresti a un giovane che viene da fuori l’importanza di conoscere meglio la città?
«La grandezza di Milano l’hanno fatta quelli che mia nonna chiamava i milanes ariùs, i milanesi ariosi. Quelli cioè che vengono da fuori. Milano ha la straordinarietà di essere l’unica città italiana che si può avvicinare alle grandi metropoli del mondo. Perché la grande città non è fatta solo delle sue radici, è fondamentale che cerchi di conservarle, ma la sua forza è l’ingresso di mille culture diverse che costituiscono poi quella cultura che forma la metropoli, fatta di mille cose. Se oggi otto milanesi su dieci hanno i genitori o i nonni non milanesi, che vengono prevalentemente dal Sud, tra 20 anni con la stessa proporzione verranno dal Sud del mondo. Le grandi migrazioni che hanno fatto grande Milano, nel lavoro e nella cultura, sono avvenute dal Dopoguerra fino agli anni 80 compresi, e sono state dal Sud e dal Nord Est del Paese, che erano le zone più povere. Oggi le grandi migrazioni arrivano da Sud e dall’Est del mondo. Non è cambiato nulla: si è semplicemente rimpicciolito il mondo. Bisogna insomma insegnare ai ragazzi che vengono da fuori a capire che loro stessi fanno parte di quell’humus della città che la renderà sempre più forte e sempre più internazionale».

 

Come ci si innamora di Milano?
«Succede pian piano che chi arriva a Milano viene contagiato da quella cultura milanese che è fatta di un profonda ironia: il milanese è abituato a sopravvivere alla nebbia, una nebbia che non c’è più ma è una nebbia interiore, non importa se non la vedi. È talmente necessaria che quest’anno che non abbiamo avuto le brutte giornate eravamo incazzati. Quel grigino umido a noi serve, siamo abituati a sorpavvivere a questo con un approccio autoironico. Milano è sempre stata un’avanguardia: tutto quello che di meglio e di peggio è successo in Italia è passato da qui. Se stai qui, devi fare parte di tutto questo, imparare ad amarla e dare il tuo contributo per farla crescere. Penso che se riusciamo a recuperare una buona quantità di posti di lavoro da offrire alle nuove generazioni tutto questo si amplificherà. E quello che sta succedendo negli ultimi tempi nella nostra città va proprio in questa direzione».

 

Qual è il tuo luogo milanese del cuore?
«Proprio l’area di viale Monza 140: ha una storia bellissima che è diventata anche leggenda. L’attuale proprietario si chiama Circolo familiare di unità proletaria. L’ha ricevuta in donazione nel 1945 dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) che, durante la Resistenza, confiscò quell’area a un ex gerarca che ebbe salva la vita (narra la leggenda) in cambio dell’esproprio. L’area venne divisa tra le forze partigiane del quartiere (socialisti, comunisti e un gruppo più generico che fondò il circolo ricreativo). Proprio lì, di fianco alla Martesana, detta I buschett (i boschetti) nacque, in un primo tempo, una balera che si chiamava Il tricheco che, a Milano, negli anni Sessanta svolse la funzione importantissima che ebbe il Piper a Roma, ma in versione più alternativa: un luogo di ritrovo di rottura, dove suonavano i Ribelli e tutti i gruppi beat. Un posto di periferia dove passarono anche Gaber e Jannacci (I due corsari), ma anche Celentano, Tenco e addirittura un gruppo che li metteva tutti insieme, ma ancora sconosciuti: i Rock Boys con Giorgio Gaber (chitarra), Enzo Jannacci (piano e chitarra), Luigi Tenco (sax) e Celentano (voce)… Incredibile. Dopo l’era del tricheco arrivò il Teatro Officina, che chiuse per motivi di sicurezza, e poi siamo arrivati noi».

 

Come nasce la leggenda?
«Sai, penso che non ci sia un confine preciso tra vero e verosimile: secondo me una cosa è vera quando il tessuto da cui emerge è credibile. Quello che vi racconto ora nasce da un luogo fisico, politico e culturale del quartiere che mi fa credere che possa davvero essere stato possibile. Se qualcuno l’ha inventato, conosce esattamente quella realtà. E rende benissimo l’idea di quell’epoca. La leggenda narra, che questo gerarca che ne aveva fatte di cotte e di crude, venne processato, fece un po’ di anni di galera e poi venne liberato. Una sera arrivò al bar della cooperativa come un vecchio ubriaco, iniziò a rompere le scatole a tutti e a urlare in modo ossessivo:  “Questo era mio!”. Dopo un po’, uno dei malavitosi del quartiere, per zittirlo, gli sparò al cuore. E lui rimase lì, secco. Pazzesco: in sostanza, colui che aveva avuto salva la vita cedendo la propria proprietà, alla fine l’ha persa proprio lì. Forse è una leggenda metropolitana, ma qualcuno nel quartiere ancora la racconta».

 

Hai un quartiere preferito?
«Oggi, penso alla zona che va da piazza Gae Aulenti all’Arena, passando per via Paolo Sarpi, perché mette insieme il nuovo, il nuovissimo e l’antico. La considero significativa perché qui tutto, a strati, racconta gli ultimi 100 anni della città. Io ci abito da poco e mi diverto tantissimo. E poi è una parte di Milano che si fa camminare perché è pedonale».

 

Un terzo e ultimo consiglio per amare Milano?
«L’ultimo luogo che suggerisco è un luogo mentale: tutti i musei d’arte, inclusa quella moderna e contemporanea. Ce ne sono davvero tanti, anche con talenti artistici milanesi che meriterebbero più visibilità, come il grande Eugenio Carmi appena scomparso: dal museo del Novecento al Pac, da Brera alle Gallerie d’Italia… A Milano ci sono alcuni tra i quadri più famosi del mondo, quadri-simbolo inaspettati: ma quanti li hanno visti?».

Manuela Florio