Quando un artigiano brevetta il termine “oro muto” per definire la texture che ha inventato e i suoi lavori vengono esposti e venduti con successo a New York, Los Angeles e Chicago con i più grandi designer del mondo, è chiaro che, oltre a padroneggiare molto bene il mestiere d’arte dell’orafo, possiede una scintilla creativa in più. Qualcosa che si dovrebbe chiamare talento, ma che lui, Antonio Piluso, preferisce definire ricerca: «Sono un orafo che fa ricerca. Il mio metallo preferito è il ferro, però ho avuto un po’ di difficoltà a farlo accettare. Quando si sperimenta, può esserci una resistenza iniziale ma poi è bello anche vedere le persone ricredersi», ci racconta con passione nel suo negozio-laboratorio, ancora con il grembiule, a tarda sera.
Da queste poche battute è ben chiaro che qui, da Pilgiò, il confine tra arte e artigianato è davvero invisibile: «Sono affascinato dalla materia, dalla terra. Ma la cosa che ha cambiato un po’ la nostra storia recente è che, anziché fare i gioielli con le pietre, io e mia sorella abbiamo iniziato a inserire il mattone», spiega con naturalezza. Perché quella che a chiunque potrebbe sembrare un’eresia, per lui è un omaggio all’infanzia e alla quotidianità: «Ho preso l’ispirazione dalla mia famiglia calabrese: dal nonno che era un contadino, dal papà che era un muratore. Mio padre lavorava con molta passione». E non è difficile credergli, visto che il figlio ha trasferito quello stesso sapere su materiali e progetti diversi, ma con lo stesso spirito: «Grazie a lui ho sviluppato la sensibilità sulla materia che mi ha portato sempre a osservare la natura: prima facevo i luoghi-gioiello. Poi per me l’oro è diventato plasmabile come il cemento. E oggi mi sento il muratore del gioiello perché ho usato anche il mattone. Questo per me è un gioco, è la mia vita», ammette con semplicità.
Per questo la lista dei diversi progetti è lunghissima, perché a partire dalla metà degli anni 80, quando il giovane Piluso inizia a lavorare sulla collezione Tracce, una sorta di energia primordiale rappresentata dall’accostamento tra rame, argento e oro, fino a quella dedicata ai Cambi di destinazioni d’uso, negli anni 90, in cui chiodi, pinze e lime diventano gioielli preziosi, ogni intuizione si è trasformata in gioiello. Come è accaduto a Saturnia dove, da un lavoro con il padre per stendere il cemento, è nata “Inclusioni”, la tecnica con cui all’oro muto si è aggiunto l’intarsio e all’amalgama si sono mescolati frammenti di bronzo, ferro e acciaio pre creare vita attorno a ogni anello, che in questo modo si modifica nel tempo. È chiaro, insomma, che le fonti di ispirazione per Antonio Piluso sono infinite e hanno sempre a che fare con la natura e con la sua forza creatrice. Per questo quando va in montagna, con gli amici, magari in mountain bike, non vede l’ora di tornare in laboratorio a creare: è un’urgenza.
Un’urgenza che è anche un mondo in cui rifugiarsi, come ammette lui stesso: «Nonostante siano passati 32 anni da quando io e mia sorella abbiamo aperto il negozio, devo ammettere che oggi più di ieri la passione per questo lavoro ti aiuta a uscire dallo squallore che ci circonda».
Il suo primo negozio è stato in via Lanzone, poi qui ha focalizzato ancora meglio il suo obiettivo: «Non faccio le cose su misura, non ho la pazienza perché mi sembra di sottrarre tempo prezioso alla ricerca. Con grande dignità non mi interessa vendere più di tanto: andare negli Stati Uniti è stata una bella esperienza però lì ho capito che mi interessava proprio il gioiello in se stesso e non ero disposto ad appiattire il lavoro sul mercato anche se, magari, si poteva guadagnare. Adesso siamo in sei: si sono uniti anche i miei due figli che stanno imparando da un maestro che è partito dalle tecniche più antiche della lavorazione del gioiello e per me è una grande gioia». Non certo perché sia un tradizionalista nell’educazione, sia chiaro: «Spero che i miei due ragazzi crescano liberi dal punto di vista creativo e per esserlo è importante costruire la memoria storica, una base fondamentale anche per il mio metodo, più ludico, che può invogliare alla creatività».
Sulle diverse sensibilità e culture che muovono l’ispirazione, si potrebbe discutere a lungo con Antonio, ma quando si arriva a parlare di rapporti con il mondo esterno, le parole vengono meno: «Non so cosa dire, per le istituzioni noi artigiani siamo delle persone da spremere al massimo, alla fine ognuno si crea il proprio giardinetto, siamo disuniti perché la realtà fuori è triste e faticosa. Ormai ho tanta esperienza e quindi me la cavo, ma quanti giovani vengono da me e io non posso formarli. Il lavoro artigianale andrebbe sostenuto: perché queste micro realtà funzionano solo per la passione che hai dentro. E che non morirà mai».
Per saperne di più: pilgio.com
Facebook: Pilgiò
Manuela Florio
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