Da Milano a New York e Los Angeles e ritorno, Luca Massironi è un talento riconosciuto e apprezzato a livello internazionale. A lui il compito di raccontare a perMilano una passione nata sulla linea verde della metropolitana: «Ancora oggi la mia casa»
C’è un writer milanese che ha conquistato il rispetto di tutta la nazione hip hop. Si chiama Flycat, al secolo Luca Massironi, un artista che, con la sensibilità e la delicatezza di un poeta, continua la sua opera ogni giorno, come una missione. Il suo compito? Trasmettere, e restituire, gli insegnamenti ricevuti, in un cammino evolutivo costante. Lo incontriamo, pochi mesi prima della sua mostra personale The piece-peace maker, con cui nel 2020 festeggia i 50 anni di età e i 36 da artista, con l’entusiasmo del primo giorno, per raccontare un pezzo della nostra città che ci invidia tutto il mondo: a lui Rammellzee, artista, rapper e guru della scena newyorkese degli anni Ottanta, scomparso nel 2010, ha affidato il compito di difendere la 25ma lettera dell’alfabeto e nel 2009 gli amici Retna ed El Mac nell’area di South Central, a Los Angeles, hanno dedicato un enorme dipinto murale intitolato The Knight (il Cavaliere), tuttora lì, a testimoniare un legame indissolubile. Schivo ed eterno ragazzo, Fly ha scritto nell’Epitoma del Futurismo Caeleste la sua dichiarazione d’intenti, è diventato una voce della Treccani e ha iniziato a lavorare sempre di più su richiesta. Per luoghi pubblici o privati poco importa: quello che conta è lasciare il segno. Oggi come ieri.
Ti ricordi la tua prima uscita da writer?
«Avevo 13 anni, saranno stati i primi mesi dell’84, ero con un mio carissimo amico con cui ho iniziato a entrare nel mondo dell’hip hop. Prima con il breaking, il ballo, e poi con il writing, con le lettere. Lui era Nicola, che purtroppo non c’è più. Sher il suo nome d’arte. Avevamo fondato questo duo che si chiamava The Fabulous Sprayers, che poi è diventato una crew. Con Nicola avevamo bigiato scuola, come si usava dire ai nostri tempi, e ci eravamo trovati tra piazza Oberdan, Porta Venezia, e piazza della Repubblica. In pieno giorno ci siamo messi a scrivere sul muro dei giardini del controviale. Ricordo che avevamo tre bombolette: un giallo, un blu e un rosso, e avevamo scritto break (per breakdance). Prima ho iniziato io, mentre lui faceva il palo con i tram che passavano, e poi lui ha colorato. Lo abbiamo finito in pieno giorno. È rimasto lì per anni. Tuttora se passo riesco ancora a identificare l’alone di grigio che avevano usato per ricoprirlo. Paura? Sì, eravamo giovani e incoscienti: già avevamo un problema perché non eravamo a scuola, in più avevamo dipinto illegalmente. Due matti».
Milano di notte: quali erano i vostri posti del cuore?
«Negli anni 90, quando cominciavamo a essere più grandi e quindi stavamo fuori la sera, avevo fondato all’angolo di dove abitavo, all’inizio di via Padova, all’entrata della metropolitana di Loreto, questo punto di ritrovo per i writers che si chiamava l’Undicesimo blocco, proprio da block, quartiere. Da lì in poi si può dire sia nato il writing a Milano, tutto nell’area est, seguendo le fermate della metropolitana, da Loreto a Piola e Lambrate fino a Cologno Nord e Vimodrone. In quest’area, che da li in poi tutti avrebbero conosciuto come Milano Est, si sono formate tutte le crew più forti di Milano di quegli anni. Sono venuti anche dei personaggi pazzeschi dagli Stati Uniti. È stato proprio un punto d’incontro importante. È durato dal 92 al 95: in piena esplosione del writing. C’erano tutte le diverse generazioni: dai ragazzini più piccoli a noi più grandi. È stato molto bello, ascoltavamo la musica,il nostro suoono, la metropolitana era il nostro posto di lavoro, il nostro posto per vivere. Abbiamo vissuto una realtà parallela. Tuttora, quando prendo la metropolitana, e la prendo spesso, mi sento a casa».
Nessun problema con l’Atm (Azienda Trasporti Milanesi)?
«Pensa: ero il nemico numero uno dell’Atm, poi, a distanza di anni, per un progetto che si stava realizzando con il Comune di Milano, mi sono trovato a parlare con i dirigenti e, raccontando questa mia passione, uno di loro mi ha regalato un modellino che mi piaceva moltissimo della metropolitana. Io in cambio l’ho dipinto e l’ho restituito con scritto Flycat. E ora è esposto nella loro sede. Pazzesco: dovrebbero regalarmi una tessera ad honorem per come sento mia la metropolitana milanese!».
E oggi hai dei luoghi del cuore?
«Mah, no… il luogo sono io. Dove vado sto bene».
Milano-New York-Los Angeles-Milano. Cos’hanno in comune queste città per un writer come te?
«Per me è stato un collegamento fondamentale, una necessità. I libri che c’erano all’epoca sull’hip hop erano pochi, tranne Arte di frontiera, un catalogo italiano. C’era il bisogno di guardarsi negli occhi, stringersi la mano, parlarsi, altrimenti non ci sarebbe stato quel passaggio di testimone che c’è stato. Prima sono stato a New York, poi a Los Angeles. Avevo seguito il consiglio del mio caro amico Chaz Bojorquez che mi aveva detto: l’America è Los Angeles e New York tutto il resto è Far West. Sono due mondi separati. Poi ci siamo noi europei. Differenze al rientro? No mi sono sempre sentito parte di un tutto: ho preso da loro ma ho anche dato. Ti faccio un esempio. Solo dopo otto anni che frequentavo L.A. mi sono permesso di esporre i miei quadri. Come i tatuaggi che ho: me li hanno donati quando è stato il momento giusto. È stato un riconoscimento. Non sono andato ad un tattoo shop: i miei li ho sentiti, sono solo miei. Sai perché sul collo ho L.A. e il mio nome? Sono stati fatti da Josur One, ma disegnati da Retna e Chaz. Due persone molto importanti per me. Perché volevo essere in grado di ricordarmi che, nei momenti di sconforto, avrei sempre avuto i miei amici della Città degli Angeli con me».
Qual è stato l’incontro più importante per te nella tua città, Milano?
«Nel 1988, colui che poi è diventato il mio maestro e il più grande amico di sempre, tuttora, anche se non c’è più: Spyder 7, Andrea, è grazie a lui se ho fatto quello che ho fatto».
Oggi dove sono le tue opere?
«I lavori più recenti sono stati su commissione: al Boscolo Hotel, oggi Palazzo Matteotti, ma anche da PizzHub ad Assago. L’ultimissimo? Dopo l’incontro con l’imprenditore Giorgio Pozzi, noto per la sua dedizione all’arte e la sua lungimiranza, mi è stata affidata la creazione di un affresco per un nuovo progetto residenziale alle porte di Milano: Art Building. Così è nato MAGNIFICAT il dipinto finora più grande e più importante della mia vita: una parete di cemento armato suddivisa in 36 moduli, che ho chiamato steli, di 3,13 metri x 42 metri, è la prima volta che un writer, uno scriba, realizza un’opera di queste dimensioni da solo senza la crew, in Italia. L’ho fatto in 12 giorni. In strada i miei pezzi non li ricordo nemmeno più. Ormai hanno una durata più limitata rispetto a una volta. Oggi c’è più ignoranza: non solo c’è chi li copre perché non apprezza questa arte, ma anche chi si avvicina a questo movimento con un approccio completamente errato e va sopra al tuo lavoro, lo distrugge senza nessun rispetto. Non li puoi nemmeno colpevolizzare perché sono proprio vuoti, cosa vuoi pretendere… rimarranno vuoti…».
A questo proposito, come mai sei diventato un divulgatore della tua arte?
«Tramandare il messaggio è alla base della cultura hip hop. È una tradizione orale oltre che scritta. È questo il valore dell’MC, del cantastorie contemporaneo. Coltivare le nuove generazioni è sempre stato nel Dna dell’hip hop e per me è qualcosa di naturale. Io stesso sono stato cresciuto e quindi è mio dovere crescere anche gli altri. Gli anni passano e magari hai meno rapporto diretto con i nuovi adepti, però lo fai attraverso le tue opere, le interviste come questa, la mia musica, quando mi metto al microfono e scrivo le mie rime… questo è tramandare. È molto importante il messaggio che si dà: è un dovere. E io nelle mie opere artistiche cerco sempre un perché: ogni punto, ogni riga, ogni colatura stai tranquillo che ti posso spiegare perché l’ho fatta. Ci sono diversi livelli per apprezzare un’opera: quando puoi interagire con l’artista è bello, ma molto spesso questo incontro non c’è. Un’opera nel contesto urbano sarà sempre sottoposta a tutte le critiche, positive e negative, quindi ogni volta che si dipinge bisogna dare sempre il meglio. In questo ultimo lavoro che ho fatto, e che ho chiamato Magnificat, in 36 steli, per esempio, c’è tutta la mia anima, tutto il mio percorso di vita degli ultimi 35 anni in questo stupendo movimento artistico e so che quest’opera mi sopravviverà. E per me è una cosa pazzesca: mentre lo realizzavo sapevo questa cosa. Ho creato una cosa che durerà più di me. E per me è una benedizione».
Hai anche tenuto delle lezioni nelle carceri…
«Quando c’era AL Alleanza Latina, magazine della cultura hip hop, negli anni 90, avevo avuto occasione di lavorare con i ragazzi reclusi tramite gli operatori dell’istituto penale minorile Beccaria con la supervisione di Don Gino Rigoldi. A distanza di parecchi anni, nel 2019, ho partecipato al progetto The good wine: 11 artisti hanno reinterpretato 11 wine bag realizzate, con gli scarti della tela dei quadri, da un gruppo di lavoro all’interno del carcere di Opera che si chiama Borseggi. Tra queste c’è anche la mia versione con le Lettere volanti. Perché l’hip hop prima di esprimersi attraverso l’arte, la musica, la poesia, i volti, le persone, parla col cuore. È questa la cosa più importante. C’era una bellissima canzone di Afrika Bambaataa e James Brown che diceva: “Peace, unity, love and having fun”. Questo è il succo della cultura hip hop».
Fare musica, per te, è una passione o una necessità?
«È nato tutto insieme. Quando con il mio carissimo amico Nicola ascoltavamo artisti rap come Bambaataa, The Furious 5… non ci potevamo certo permettere tutta l’attrezzatura per fare musica, allora con i mangiacassette dell’epoca registravamo il nostro rap in un inglese allucinante (eravamo alle medie) e poi facevamo lo scratch con le zip delle nostre tute da ginnastica! Zzz zzz zzz. Avevamo una bellissima tuta blu scuro con le strisce azzurre della Puma: non ci crederai, ma veniva bene!».
Ci spieghi il Futurismo celeste, il tuo manifesto, in poche parole?
«È una liturgia. È un diario di vita. L’ho chiamato epìtoma ed è un lavoro di sintesi in continua evoluzione, così come lo è la mia vita e la mia arte. Io imparo sempre. Ho una struttura base che poi, di volta in volta, si arricchisce. È un mio manifesto personale, ma è confutato anche da prove storiche e da una mia ricerca che continua. Mi sono immedesimato in uno scriba della Mesopotamia. Mi sono immaginato, in pieno Impero Romano, scrivere epigrafi… È importante capire che lo studio delle lettere del nostro alfabeto latino romano, 26 elementi più quelli che sono stati celati ma ho ripristinato, è una vera arte. Purtroppo, la paleografia non ha mai affrontato finora l’aspetto artistico. Io vorrei trasmettere che le lettere non sono state inventate solamente per il commercio, come dicono gli storici, ma sono una liturgia. Se guardi alla cultura ebraica, per loro le lettere sono sacre. E noi questo l’abbiamo perso. Dobbiamo riprendere da qui. E questo è il mio piccolo contributo».
Milano è la capitale del design, che cos’hanno in comune il writing e il design?
«La cosa più importante è la necessità all’interno di tutti gli ambiti creativi di confrontarsi, di miscelare le diverse esperienze per creare nuove cose. Accade nel design, nell’architettura che è una parte dell’arte che ho scoperto recentemente nella mia vita, ma anche nella moda. Questo continuare a combattere, a scontrarsi per creare qualcosa di nuovo, è la cosa che lega tutto: la pittura, la moda, il design… Perché l’arte è il cibo dell’anima. È per quello che siamo magri!».
Intervista di Manuela Florio
Video di Emmanuel Dellaqueva
Foto b/n di Alessio Rigoldi
Aggiornato nel gennaio 2020
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