La cura, la dedizione e la passione di Pia Virgilio per il restauro ceramico sono una questione di DNA: essere nata e cresciuta a Sciacca, in Sicilia, antico centro ceramico per eccellenza le ha lasciato una sensibilità estrema per tutti gli oggetti in ceramica e per la storia. Per questo ha scelto di studiare restauro a Faenza, presso lo storico Istituto Ballardini, e poi di praticare il mestiere d’arte a bottega proprio lì, presso il laboratorio di Anna Grossi.
Quando, nel 2003, Pia ha aperto il suo laboratorio a Milano, nello storico palazzo nel cuore delle 5 Vie, le idee sono diventate ancora più chiare e il suo lavoro ha preso una piega ben precisa: «In passato il restauro ceramico era sempre stato un po’ un fai-da-te, eseguito da semplici artigiani venuti su in modo empirico, una sorta di “rabbercia cocci”. Poi, al contrario, è venuta su una generazione di restauratori specializzati in interventi su misura per i musei. Io mi sono trovata un po’ in mezzo e ho cercato di far incontrare questi due mondi: faccio un restauro valido, buono, però con i criteri del restauro conservativo. Quindi ho scelto di fare anche il restauro mimetico, vietato dai puristi, ma sempre con un approccio moderno. Per questo riesco a lavorare con la Soprintendenza anche su quegli oggetti che un restauratore museale non farebbe. In questo modo si moltipicano le opportunità».
Abituata a lavorare su terracotta, maiolica, porcellana, biscuit, gres e metallo smaltato, Pia cura le ricostruzioni attraverso un ritocco meticoloso, attento al rispetto dell’originale. Per questo la ricerca di nuovi materiali e nuove tecniche non finisce mai. Anche perché la clientela ha esigenze diverse: «C’è il collezionista privato, l’antiquario, ma esistono anche gli enti e le fondazioni, come quella di Fausto Melotti per il quale ho una predilezione, che in una città come Milano garantiscono una certa continuità a un’artigiana come me».
E qui emergono due nuovi aspetti del mondo del restauro ceramico: «Oggi il mercato si apre sul Novecento ma si sta spostando sempre di più all’estero». Quindi, da una parte ci sarebbe più lavoro ma dall’altra: «la normativa per lo spostamento delle opere d’arte è talmente complessa, prevede dai 60 ai 90 giorni per le pratiche di esportazione, che alla fine non riusciamo a competere con il mercato straniero».
In sostanza la vita dell’artigiano è sempre più difficile: «Oltre a non aiutarci a essere competitivi a livello europeo, il governo non ci mette nelle condizioni di fare crescere gli apprendisti e non riusciamo a fare il passaggio di testimone: abbiamo diritto a un massimo di 6 mesi di tirocinio finanziati dallo Stato ma, da uno studio commissionato dalla Fondazione Cologni, è emerso che per qualsiasi mestiere d’arte ci vogliono in media tre anni per formare un operatore. Per noi che abbiamo bilanci che fanno sorridere, avere un apprendista diventa un lusso che non ci possiamo permettere e quindi anche i lavori che possiamo prendere sono limitati».
Un modo per crescere forse ci sarebbe: «In astratto il nostro mondo e quello del design, che a Milano è molto considerato, non sono così distanti: noi ci occupiamo sempre di più del Novecento e chi colleziona quel periodo ha anche pezzi di design». Perché, dunque, non sottolineare questo legame strettissimo tra competenze diverse e iniziare a far dialogare queste due realtà? È una proposta che arriva da chi conosce bene le potenzialità di un mestiere d’arte antico in continua evoluzione. Proprio come il design.
Per saperne di più: piavirgilio.it
Manuela Florio
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